mercoledì 10 febbraio 2016

La fatica dell'abbandono


5 commenti:

  1. Le fasi che precedono e seguono la perdita di una persona amata scatenano in noi momenti di crisi psicologiche in grado di incidere, anche pesantemente, sulla nostra vita.
    Senza un aiuto efficace, senza il contributo di una profonda analisi interiore, non riusciamo a comprendere appieno il peso dello squilibrio che stiamo vivendo. La scrittura rappresenta, anche in questo caso, una strategia di valido aiuto per la comprensione e la neutralizzazione degli effetti negativi dell'evento: tanto più rapido e profondo sarà lo scavo interiore, tanto più facilmente si troveranno gli antidoti per contrastarlo e superarlo. Il racconto autobiografico, per circostanze cosi delicate, si dimostra un supporto duttile e duraturo per il nuovo equilibrio desiderato, per quanto doloroso possa essere sondare i meccanismi di rimozione e di difesa della psiche.( dal mio testo: Parole evolute. Esperienze e Tecniche di scrittura terapeutica. Edi Science)

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  2. Propongo alla vostra attenzione una mia personale riflessione postata sul mio blog personale (lifarnur.blogspot.it) e che ho intitolato "Il Dolore della perdita":

    E' sordido, silente, come un predatore strisciante, quel dolore dell'anima che assale all'improvviso e con le sue invisibili mani stringe la gola. Essa si chiude in uno spasmo doloroso che non lascia spazio al respiro, mentre lo stomaco viene preso a calci e si contrae. Non c'è preavviso, attacca, assale, dilania. Potrei paragonarlo ad un virus latente, dormiente, in attesa solo di uno stimolo anche minimo, quella scintilla di energia che gli serve per mettersi in moto.
    E' il dolore per la mancanza di chi non c'è più, che si alimenta per il solo fatto di esistere e che se pur in stato soporoso, esso vigila in attesa di un momento di debolezza di colui o colei che seco lo portano. Basta nulla a provocarlo, un gesto, uno sguardo, una parola, un pensiero distratto, un riflesso di luce, un suono, un semplice silenzio, nel secolare quotidiano che rintocca la vita.

    E' amaro quel dolore, tanto amaro da doverlo deglutire più volte, e per deglutirlo è necessario uno sforzo sovrumano. E' un dolore egoistico, ne sono consapevole, che vive in compagnia dell'altrettanto egoistico desiderio di riavere indietro coloro che ci hanno lasciato, un desiderio cieco e solo proiettato al soddisfacimento personale. Per noi che siamo restati, si tratta, qualunque sia stata la modalità che ci ha strappato le persone a noi care, di una privazione che ci è stata imposta anzitempo, e forse lo è.

    Tutti noi abbiamo un tempo che ci è stato concesso, più o meno lungo, allo scadere del quale Atropo taglia il filo che ci tiene in vita, come ha fatto con coloro di cui ci ha privati, e noi che restiamo dobbiamo inevitabilmente convivere con il vuoto che ci è stato imposto. Errano coloro che sostengono che il tempo lenisce il dolore, non c'è lenimento alcuno, ci si convive cercando di tenerlo seppellito perchè la disperazione non abbia il sopravvento.

    Per lenire i miei di dolori ho cercato un'alternativa non egoistica, una spiegazione che potesse in qualche modo avere la parvenza di una pseudo giustificazione. Ho pensato a chi ha lasciato dentro di me un vuoto largo quanto l'abisso, al loro modo di essere, al loro carattere, a tutti gli aspetti che hanno caratterizzato la loro vita e il loro rapporto con me e sono giunta alla conclusione che Atropo quel filo l'ha tagliato affichè loro non fossero destinati a vedere lo squallido sfacelo che è seguito alla loro dipartita. Non consola, ma ha una sua triste logica.

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  3. Cara silvia, ti capisco bene.Penso che comunque che occuparsi degli altri possa lenire almeno un po' il vuoto.uscire da sé per incontrare l'altro in cui c'è nascosto un dono ,se lo vediamo in un certo modo.

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    1. Cara Serena, è vero ciò che dici, quando ci occupiamo degli altri non possiamo che trarne beneficio, un beneficio biunivoco perchè fa bene a chi lo riceve e fa bene a noi. Molto belle le tue parole

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  4. "
    "Posso dire, oggi, di aver vissuto pienamente la mia vita, ma per arrivare a questo ho dovuto attraversare quel guado della sofferenza facendola diventare veramente mia, scevra da qualsiasi condizionamento, da qualsiasi conformismo. Persino un grande dolore, una perdita terribile non possono sovrastarci senza lasciare appigli di speranza; la sofferenza ha un senso se ne usciamo rinvigoriti nel tempo, umanamente più capaci e disponibili verso gli altri..." Da Non avere paura.

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